"Il quarto elemento" (metti che proviamo a pensare e fare in maniera diversa)
Sei pagato nella misura in cui risolvi i problemi di qualcuno. Ma trovi senso, pace e nobiltà nella misura in cui non ne crei altri a qualcun altro e risolvi almeno un po’ dei tuoi.
A fine Ottobre è uscito il mio nuovo libro: Modelli di business circolari.
Mio per un quarto, forse anche meno :)
Ho dato voce a concetti, metodi, strumenti, test fatti in oltre dieci anni.
Ma ho avuto anche la possibilità di ragionare a fondo su una tematica che per anni avevo sentito dire e sbandierare, come tutti, ma approfondito poco.
Ho avuto il piacere e la fortuna, anche la fatica ad essere sincero, di confrontarmi su tematiche che sono meno nette di come possano sembrare.
Come in tante altre aree della nostra vita, come la vita insomma, anche parlando di sostenibilità ci troviamo nel dilemma del “il buono o l’ottimo”. Nel senso che pur facendo qualcosa di buono, se si guarda bene stiamo causando qualcosa di meno nobile, utile, salvifico, sostenibile.
È un libro che si rivolge a gente dell’azione, imprenditori, manager e consulenti che vogliono fare, cambiare passo e “circolarizzare” imprese e organizzazioni.
Ci sono però anche molti concetti che possono essere utili anche a capire. Dove sta andando il mondo, come dovrebbe andare.
Anche il nostro mondo, quello personale.
3 fattori + 1
Uno dei principi sui quali si basa il libro potremmo dire sia il “quarto elemento”, un criterio, se volete anche una metrica decisionale, che l’economia lineare non ha mai preso in considerazione.
In passato, da secoli, ma anche oggi va per lo più così, un business viene ponderato (lo faccio?) e validato (continuo?) sulla base di tre fattori:
Desiderabilità: qualcuno vuole ciò che sto per produrre, fare, vendere?
Fattibilità: sono davvero in condizione di fare ciò che sto pensando e promettendo?
Redditività: detto chiaramente, ci faccio soldi?
I più sensibili o forse semplicemente quelli più intelligenti, condiscono tutti con un altro criterio: la soddisfazione del cliente.
“Sei pagato nella misura in cui risolvi i problemi di qualcun altro” non a caso è la frase più longeva nella storia del marketing, delle vendite e forse dell’umanità.
C’è solo un piccolo particolare: non è sufficiente. È parziale. E sappiamo ormai per certo che non ha funzionato.
Airbnb ha risolto il problema di chi cerca un alloggio a prezzi economici.
Ma ha sconvolto il sistema degli affitti facendo sì che le persone con una casa vuota optassero sempre più per gli affitti brevi e causato una scarsità di offerta (di medio e lungo periodo) senza precedenti e costi altissimi. A pagare il conto tantissime famiglie che non possono acquistare, non trovano casa e se la trovano devono svenarsi.
Uber ha reso la mobilità un gioco da ragazzi.
I tassisti l’hanno odiata da subito ma non è questo il problema.
Ha reso così facile ed economico prendere un Uber che le persone ormai la trovano più conveniente rispetto ai mezzi pubblici. Risultato: ancora più traffico nelle città e un notevole aumento di C02 immesso quotidianamente nell’aria.
Sistemi come Klarna hanno reso gli acquisti ancora più accessibili.
Ma ciò porta le persone ad acquistare ancora di più e creare ancora più rifiuti.
E porta le persone che non avrebbero soldi da spendere con tanta facilità a farlo, e indebitarsi sempre di più.
Il punto non è ovviamente demonizzare Airbnb, Uber, Klarna, gli innovatori.
Il punto è ripensare il concetto di innovazione.
Tim Harford in “50 cose che hanno fatto l’economia moderna”, ne parlava in questi termini: l’innovazione risolve i problemi di qualcuno e fa venire il mal di testa a qualcun altro.
Una frase vera e che suona bene.
Ma che sino ad oggi abbiamo inteso come le regole del gioco.
Come a dire: cazzi tuoi se non ce la fai.
Nel nostro libro invece abbiamo “definito” innovazione, per come stanno le cose, come un gioco di “persone che risolvano problemi di persone che risolvono problemi”.
Un loop infernale e appunto insostenibile.
Airbnb risolve il problema di chi cerca alloggi temporanei ed economici ma crea disagi per chi cerca alloggi a lungo termine. Un giorno per “risolvere” si abbatterà l’ennesima foresta o bosco e si creeranno condomini per sfigati o “low cost” che fa più figo.
Uber rende la mobilità un gioco da ragazzi ma nessuno prende più i mezzi pubblici, il traffico aumenta, l’aria diventa irrespirabile. Un giorno ci inventeremo qualche iniziativa per risolvere e creare un nuovo problema.
I sistemi Buy now pay later favoriscono i consumi ma aumentano rifiuti, C02 per il trasporto delle merci, indebitamento. Risolveremo anche questa permettendo alle persone di trasferire i debiti sui nipoti (anche se hai ancora 18 anni) o riportando in vita l’idea dei tatuaggi pubblicitari… o qualcosa di simile.
È solo una provocazione ma credo sia chiaro: non può funzionare.
Il quarto elemento: l’impatto, il vero impatto
Il quarto elemento dell’economia circolare è la sostenibilità.
Farsi un ulteriore domanda prima di fare ciò che vorremmo fare e che i conti ci suggeriscono di fare: “dovremmo farlo?”
In maniera più specifica si tratta di valutare bene l’impatto causato dalle nostre azioni.
E non solo sul nostro target (termine che non uso volentieri ma qui è letteralmente azzeccato) ma a livello diffuso.
Tecnicamente si tratta di andare oltre l’user centered design e valutare l’impatto diffuso: sulle persone, le comunità, gli ecosistemi, l’ambiente, le generazioni future.
Con Giovanni ne avevo parlato anche qui.
Mi viene in mente la celebre scenetta, romanzata e raccontata una quantità indecente di volte in speech e congressi aziendali, nella quale Steve Jobs avrebbe convinto John Sculley, ex presidente di Pepsi Cola, a diventare CEO di Apple nel 1983: “Vuoi vendere per il resto della tua vita acqua zuccherata o vuoi cambiare il mondo?”
Ecco, la domanda da farsi è: di quale mondo stiamo parlando?
Del tuo? Del tuo e di un amico? Del tuo e della tua famiglia? Del tuo occidentale? Del tuo benestante? Del tuo mondo presente (in barba a quello futuro)?
Vale per servizi, prodotti e “i nostri prodotti”: cioè le nostre vite
È semplice ma nessuno ci pensa: le nostre decisioni sono i nostri prodotti. Prendi una decisione partendo da te e vedi quanto è buona solo quando la porti fuori, all’estero. In azienda, in famiglia, sul mercato.
Anche qui però la bontà e l’opportunità di una decisione hanno bisogno di metriche.
Se consideriamo solo quelle che ci hanno portato sin qui (desiderabilità, fattibilità, redditività e “il cliente è contento?”) non possiamo aspettarci molto di diverso rispetto a ciò che abbiamo: siamo per la maggior parte depressi e incazzati.
Il manager che fa 300k l’anno e si imbottisce di ansiolitici.
Il manager che non fa 300k l’anno e si imbottisce di ansiolitici.
Il manager che fa 300k l’anno, non si imbottisce di ansiolitici ma non ha più una famiglia.
Ovviamente anche io e te. Il freelance, il ricercatore, l’avvocato, ecc.
Se inseriamo il quarto elemento, la sostenibilità (che non riguarda ovviamente solo il “verde”) allora le cose diventano più interessanti.
Desiderabilità: qualcuno vuole ciò che sto per produrre, fare, vendere?
Fattibilità: sono davvero in condizione di fare ciò che sto pensando e promettendo?
Redditività: detto chiaramente, ci faccio soldi?
Sostenibilità: qual è il costo, qual è il prezzo*, qual è l’impatto?
Non è né complicato da comprendere né rivoluzionario ma è ciò che davvero può cambiare il nostro mondo e le nostre vite.
Magari potremmo scoprire che lasciare un lavoro ben pagato non è così folle. O che lasciare il lavoro ben pagato e fare startup non è così nobile.
Che non raggiungere una certa somma di soldi ogni anno non è quel che conta. Che una famiglia vale di più. Che giocare con il proprio cane vale quanto un benefit…
Cose di questo tipo.
Per come funziona il nostro mondo, pensieri e decisioni controcorrente.
Ma come disse Jiddu Krishnamurti: “Non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società profondamente malata”.