Perché ho avviato una newsletter su Substack e non su LinkedIn? Risposta veloce: ho a cuore la “mia” rilevanza.
Ormai è molto chiaro: ciò che fa fare soldi a quattro o cinque società del mondo non è ciò che serve a noi per rimanere rilevanti.
Sono successe un paio di cose interessanti questa settimana. Ho lanciato la mia (nuova) newsletter, l’ho fatto qui su Substack e non su LinkedIn come stanno facendo tutti.
Un amico mi ha chiesto com’è andata, che risultati ho ottenuto.
Anche lui qualche settimana fa ha avviato una newsletter. Ma su LinkedIn. E ha riscontrato un successo pazzesco: più della metà dei suoi follower si sono iscritti, ogni news ottiene migliaia di visualizzazioni e tantissimo engagement.
Con oltre 12 mila followers su LinkedIn sarebbe stato facile per me replicare e superare quei numeri. Ma non l’ho fatto.
“Perché?” Mi ha chiesto.
“Ci tengo alla mia rilevanza” ho risposto.
Qui provo a mettere in ordine i pensieri e dare una risposta più chiara e argomentata.
Brevemente, in modo che si sappia subito dove voglio arrivare, vorrei oggi parlare di:
Cosa intendiamo per rilevanza e come ci siamo arrivati
Il concetto anormale e pericoloso di rilevanza per le piattaforme
Il rapporto tra le logiche delle piattaforme e i nostri obiettivi
Dove stiamo andando e come salvare la pelle, cioè rimanere rilevanti
Rilevanza
Rilevanza è la cifra del ventunesimo secolo. Il principio cardine e la più grande sfida. Come umani, siamo come mai nella storia chiamati a giustificare il nostro ruolo nel mondo. O, almeno, sul mercato.
Era già successo.
Durante la rivoluzione industriale. Quando l’uomo fu chiamato a confrontarsi con qualcuno che faceva il suo stesso lavoro per più tempo, più velocemente e a un prezzo infinitamente minore. Ci volle molto per accettarlo. Alcuni finirono ai margini, alcuni provarono a ritardare la fine distruggendo il nemico, le macchine ma alla fine tutti rientrarono tra coloro che si sarebbero arresi o rassegnati, integrati.
Con le nuove tecnologie da un paio di anni sta succedendo qualcosa di analogo. Solo più potente, veloce, impattante.
“I robot ci ruberanno il lavoro”? È allo stesso tempo un’esagerazione sensazionalistica buona per riempire i giornali quanto un rischio concreto. Ma non solo.
Il vero rischio, più che un qualche tipo di automa che faccia il lavoro al posto nostro, è questione di idee. Di narrazioni, paradigmi, modi di fare e pensare.
Come ci guadagniamo da vivere, in cosa e come li spendiamo, con che valuta paghiamo portano ad esempio non solo a un’infinità di interrogativi ma ad una vera scelta di campo.
Credo abbia molto a che fare anche con i social, con le piattaforme social e quelle che verranno magari sotto nuova veste, metatarso e affini.
Più andiamo avanti, più vengono introdotte novità e più sono convinto che, al di là di innovazioni formali, la sostanza non cambia.
Qual è la sostanza? Qual è la pericolosa direzione?
La standardizzazione, l’appiattimento verso il basso, la sacrificabilità di molti di noi a favore di una media comune e di profitti di pochi.
Mi rendo conto che un discorso di questo tipo possa sembrare esagerato, specie se si parte dalla scelta di una piattaforma e da un discorso da “social”. Ma credo comunque abbia senso e ci sia molto su cui riflettere.
Non è la mia rilevanza, è il tuo modo di fare soldi
La promessa di Internet era grandiosa. Era comunicare, entrare in contatto con le idee, scegliere idee, scegliere di volta in volta con cosa e con chi entrare in contatto.
Era anticipare i nostri desideri e rispondere ai nostri bisogni.
Era ma non è stato. Non lo è di certo oggi.
Passiamo buona parte delle nostre giornate su questo o quel social. Anche se non ci stiamo. Io ad esempio non sono né su Instagram né su TikTok, non uso Facebook, eppure ogni giorno ricevo via Whatsapp qualche link a questo o quel contenuto da parte di un amico, un collega, un cliente.
Nessuno può dirsi indenne.
E, nessuno, nessuno che comunque ci tenga a giocare nell’attuale mercato, può pensare di tirarsi fuori.
Il risultato è che ciò che qualcuno decide sia rilevante o sia “rilevanza” muove il mondo, con noi dentro.
Ma cosa muove questo mondo? Qual è la logica per cui qualcosa può essere rilevante?
In teoria: qualcosa che risolve un mio problema o mi aiuta in una qualche attività precisa in un dato momento. Potrebbe essere anche la semplice voglia di farmi una risata o di sentirmi una persona migliore.
Ma in pratica?
In pratica il funzionamento dei social, degli algoritmi, delle piattaforme, è anche il motivo per cui ti imbatti in contenuti idioti ma acclamati, virali.
È ciò che interessa a più persone.
La rilevanza che dovrebbe essere personale è una questione di media e mediane. Una questione economica.
Come funzionano quasi tutti gli algoritmi social (spiegato bene e in modo cinico)
Qualcuno posta una vecchia foto del gatto e immediatamente viene ricompensata con mille like e 100 mila visualizzazioni; un post che invita a dare sempre una seconda possibilità ai giovani, o ai vecchi, o a quelli di mezza età ottiene un plebiscito di consensi.
Poi arriva quello che ti spiega come prendere il volo e come creare anche tu contenuti virali. A volte ti propone di imparare tutto in una masterclass a prezzo eccezionale, qualcosa come 199 euro anziché 12.400 euro che chiede di solito (pernacchia). Altre volte, sempre lo stesso tizio, o tizia naturalmente, è così generoso da svelare tutto gratis. A patto ovviamente di: mettere like al post, commentare con un razzo o con qualche altra frase/simbolo che ti faccia sentire un idiota, fare un salto su Instagram e seguirlo/a anche lì, iscriverti alla newsletter settimanale (che per inciso non manderà mai ma è sempre bene avere una bella lista a cui spammare roba quando serve).
Che poi il vero problema non è tanto "capire come". Come creare contenuti che piacciono agli algoritmi? Come piacere a LinkedIn e creare contenuti virali? Il "come" è semplice: spegni il cervello, la dignità, ogni ambizione, il pensiero critico e posta una stronzata qualunque. Il trucco sta nel comunicare (oddio che brutto inserire "comunicare in questa frase" in maniera polarizzata: bianco o nero. E, funziona sempre, rigurgitare concetti banali, masticati, digeriti, che non chiedano alcuno sforzo a chi ci si imbatte per caso. In ogni caso ci sono sempre due alternative sicure e veloci:
1) Traduci qualcosa di qualche "influencer" d'oltreoceano
2) Fregatene e copia semplicemente la prima cosa stupida che vedi sta riscuotendo successo
Vabbè, su questo potrei continuare per molto. Ma questo, lo giuro, non vuole essere l'ennesimo articolo che dice "tutto fa schifo", "usciamo dai social". Per un freelance, per chi volente o nolente, crea e consolida la propria reputazione sui canali digitali, ogni discorso etico è un puro esercizio di stile. Completamente astratto. Mi interessa più provare a ragionare su come ci siamo arrivati. Su come funziona il gioco e come provare a starci mantenendo la propria dignità e provando comunque a cavarci qualcosa di buono.
Dunque, come funziona? Il modo migliore per spiegarlo e comprendere l’ho trovato in due esempi magnifici di Thomas Baekdal.
Immagina di avere una pagina con quattro diversi tipi di frutta. Hai mango, mele, fragole e una banana.
Ora immagina di chiedere a tre persone di dirti quali sono i due frutti che preferiscono di più , in ordine di preferenza.
La prima persona dirà che le piacciono di più i mango e la seconda le banane. La seconda persona dice che preferisce le fragole prima e, ancora, le banane come seconda scelta. La terza persona dice che le piacciono di più le banane e se non ci sono le banane sceglie allora le mele.
Quindi, prendi le risposte, le metti in un foglio di calcolo e le classifichi in base a quanto "coinvolgimento" ciascun frutto ha ottenuto. Il risultato è quello che vedi.
Piccolo problema: le banane non sono il frutto migliore o preferito da tutti. Un terzo del pubblico in realtà preferisce i mango alle banane, ma per le piattaforme queste persone sembrano non esistere o non essere importanti.
Non stiamo trovando quale sia la frutta migliore . Stiamo ottenendo il miglior frutto medio . C’è differenza!
Risvolti pratici, ipotetici, immaginari ma non così distanti dalla realtà:
Se non ti piacciono le banane sei un tipo strano. Di che parli sui social?
Se produci mele di ottima qualità come fai a superare il caos di quelli che parlano delle banane e il fatto che i social diano maggiore risalto a coloro che parlano di banane?
Ti scocci e non parli più
Ti scocci e non produci più banane, produci anche tu mele
Si arriva a un punto in cui tutti parlano di banane: anche chi non sa cosa siano (come l’acqua di Wallace!)
Ancora un altro esempio: la “migliore colazione”
Due proposte per la tua colazione.
La prima: apri una scatola di cereali e versala nel latte. Un minuto e sei lì con cucchiaio a mangiare felice.
La seconda: una bella crostata alla frutta. In questo caso devi comprare la frutta giusta, poi pensare a come fare la pasta frolla, poi stenderla, infornarla, farcirla.. si vabbè è finita la giornata.
Ora, mettiamo, come in effetti succede, che due persone condividano i propri consigli di colazione: uno ti dice come mangiare velocemente i cereali e fiondarsi al lavoro, l’altro come preparare una colazione succosa e salutare, una crostata.
Quale avrebbe più coinvolgimento?
Le statistiche hanno decretato un vincitore per distacco: cereali del cazzo veloci veloci.
Il motivo? Non è che le persone siano superficiali o non amano mangiare bene. Il motivo è che quando siamo sui social (sempre mediamente si intende) non amiamo impegnarci.
Il messaggio: svuota cereali in tazza e vai al lavoro > è semplice.
Il messaggio: scegli la frutta, prepara la crostata, aspetta che si cuoce > è impegnativo.
Se quest’esempio può sembrare troppo astratto, pensa invece a due diversi tipi di contenuti che puoi incontrare sui social.
Se vuoi avere successo, credi in te stesso e vai avanti
Se vuoi avere successo assicurati di avere un prodotto che le persone vogliano davvero, inizia con un’analisi della concorrenza e valuta con attenzione la sostenibilità del tuo modello di business. Un esercizio per iniziare: analizza quanto ogni cliente ti è costato in termini di acquisizione e quanto in termini di profitto…
Naturalmente è solo un esempio, e non sono stato neanche così attento nella formulazione del secondo caso; potrebbe benissimo suonare come una stronzata.
Il punto però è che anche qui siamo di fronte a una gara sbilanciata con un vincitore assoluto per ampio distacco. Vince il primo messaggio.
Ma anche qui, va detto, o almeno fingiamo di crederci, non è che le persone siano superficiali. È solo che sui social, in un ambiente di continui stimoli, progettato per rispondere in maniera immediata, ciò che viene premiato più di ogni altra cosa è il pensare meno possibile, il non impegnarsi.
Sappiamo bene che tutte le piattaforme, TikTok e tutte le piattaforme mobile first soprattutto, funzionano con le stesse logiche di un casinò: scrolli velocemente, come abbassando la leva di una slot machine, e ogni volta che incontri un contenuto che non ti interessa, sei ricompensato emotivamente da qualcuno che invece ti attrae.
Quello che però c’è da evidenziare è la voglia - scientificamente indotta - di non impegnarsi.
Se scorri e vedi “il bianco muove e vince in 3 mosse”, come succedeva per esempio sulla Settimana Enigmistica, anche se sei un appassionato di scacchi, non la consideri né una vittoria né qualcosa su cui soffermarsi.
Alla fine scrolli. Alla fine… vincono le banane.
È ufficiale (dicono): le banane sono il miglior frutto della terra.
Risvolti pratici, ipotetici, immaginari ma non così distanti dalla realtà:
Il funzionamento delle piattaforme è ben noto, non lo scopro mica io. Solo che quasi sempre si parla di questo in termini di salute mentale, il che è nobile e mi sta particolarmente a cuore. Ma non è solo questo. Dal punto di vista pratico, per chi è chiamato comunque ad attrarre attenzione dal mondo digitale e tradurla in reputazione e monetizzazione, significa anche altro. È un fenomeno economico.
Dicevano che la domanda crea l’offerta.
Non è più vero.
La crea l’algoritmo.
Ma ciò significa anche altro: ogni cambiamento, ogni capriccio dell’algoritmo incide non soltanto su come ci sentiamo ma su come stiamo economicamente in questo mondo. Sulla nostra rilevanza.
Medie, pre-scelte, la fine dei “micro-momenti”
Sintetizzando, la società algoritmica è caratterizzata da 3 grandi fenomeni:
Pre-scelte
Proviamo nuovamente con un esempio semplice.
Vai a ristorante per la prima volta. È un ristorante raffinato e di cui tanti ti hanno parlato benissimo. Sei elettrizzato solo a pensare a quante prelibatezze ci saranno nel menu e tra le quali potrai scegliere.
Apri il menu e trovi… solo 3 opzioni.
Che succede?
Ti sembrerebbe normale una cosa di questo tipo? Rimarresti comunque seduto o protesteresti?
È quello che succede nelle società algoritmiche: qualcuno ha già scelto per te.
“Top”, “relevant”, “popolari”, “di tendenza”, “fai attenzione a questo”. Sono i modi in cui i social ci propongono contenuti rilevanti. Solo che non sono realmente rilevanti per noi (ricorda l’esempio delle banane). Qualcun altro ha scelto.
Se Simon Sinek con il suo “start with why” compare in cima in qualità di influencer e dall’alto dei suoi 5 milioni di followers su LinkedIn non è perché hai bisogno di “incontrarlo”. È perché qualcuno ha deciso che quella sia la cosa migliore per te.
Per certi versi, siamo tornati ai matrimoni combinati: “ecco tuo marito”, “questa è tua moglie”.
Medie e pre-scelte e il casino è fatto. A portata di click.
La fine dei “micro-momenti”
Una vita fa, nel 2015, Google pubblicò un articolo sul proprio blog in cui avrebbe aperto gli occhi a tanti marketer. Sinteticamente, spiegava, non tutti i momenti sono uguali.
Ci sono i micro-momenti: momenti in cui le persone cercano attivamente risposte a problemi. Ad esempio: “"ho bisogno di una ruota di scorta ora" o un momento "voglio un caffè ora”.
Ci Sono i macro-momenti: momenti in cui le persone non cercano attivamente nulla e sono aperti all’esplorazione. Come dire: potrei prendere un caffè fuori ma se trovo un bel film potrei anche sprofondare felice sul divano.
Non è qualcosa di scientifico, è solo una mia idea, ma credo che la società algoritmica stia distruggendo i micro-momenti, le intenzioni, la ricerca attiva e consapevole di cosa ci serve e di cosa vogliamo.
Anche il concetto ad esempio di Metaverso se vogliamo ne è una prova. Almeno in questa forma embrionale, prendi Gucci e il suo temporary store, l’idea è che mentre passeggi da qualche parte in un imprecisato mondo potresti essere aperto e ricettivo a qualche cosa.
Un po’ come le vendite di impulso. Un po’ come il motivo per cui le tic tac e altri dolciumi si trovano sempre in prossimità della esse: sei lì per pagare, sei in fila, in attesa, magari ti annoi, vabbè prendo questo. Non sei entrato per le tic tac o l’ovetto Kinder ma lo hai preso comunque.
Credo, temo, che la comunicazione (se si può chiamare comunicazione) stia andando in questa direzione.
Chi l’ha votato questo algoritmo? Possiamo fare qualcosa?
Non è la prima volta che parlo della deriva delle piattaforme social, di quell’innovazione che oggi appare così obsoleta. Ogni volta, succede sempre, spesso parlando di LinkedIn, salta sempre fuori l’esperto che dice: no, sei tu a creare il tuo feed. Siamo noi a creare il nostro LinkedIn (o Facebook poco importa).
Mi piacerebbe che quanto esposto sia una confutazione sufficiente. Ma ho anche altri argomenti.
Il primo punto è che non si tratta di un bug, di un errore temporaneo, ma di una volontà precisa.
Quando pensiamo agli algoritmi, lo facciamo sempre nel modo sbagliato. Un po’ come succedeva e succede con l’AI, come faceva già notare Harari anni fa, crediamo che il problema sia nel relazionarsi con cose robotiche, senz’anima, intelligenti ma anche stupidi perché prive dell’empatia e sensibilità umana. Crediamo insomma, come insegnano ancora i film di fantascienza, che le cose possano mettersi male, o vadano male, perché gli algoritmi o i robot possano disobbedire agli esseri umani. E invece è vero il contrario: il problema è che obbediscono agli esseri umani e non si ribellano mai.
Non sono stupidi perché non ci ascoltano. Sono stupidi, e spesso cattivi, perché ci ascoltano.
Un esempio emblematico è quanto avvenne nel 2016 proprio per colpa dei sistemi “intelligenti” e per l’incapacità di allontanarsi dai pregiudizi dei loro genitori umani.
Ecco la storia: nel 2014, Brisha Borden era in ritardo per prendere la sua piccola a scuola e rubò una bicicletta. Fu preso. Più o meno nello stesso periodo, il quarantanovenne Vernon Prater è stato arrestato per un furto di $ 86,35 in un negozio. Prater aveva precedenti e dunque scontò una pena molto più dura, ben cinque anni di carcere.
Eppure quando Borden e Prater furono incarcerati, un programma predittivo diede il seguente risultato: Borden ad alto rischio, Prater a basso rischio.
Una volta compreso questo, possiamo ripensare in maniera meno arrabbiata e meno stupida al rapporto con algoritmi e piattaforme.
Non sono cattivi/e. Non sono stupidi/e. Semplicemente i loro interessi sono diversi da quelli di ciascuno di noi. Ogni piattaforma e l’algoritmo che le regola è scientificamente progettata e costantemente “migliorata” per fare soldi.
Indipendentemente se questo fa ci renda oggi o domani più infelici, più poveri, sempre meno rilevanti.
Il secondo punto, perché non cambia e non cambierà la situazione, è dato dal semplice fatto di essere umani.
Quando ci penso mi viene da pensare a quei politici che tutti criticano e poi uno si chiede “ok, ma allora chi li ha votati?”
La storia è simile, forse solo un po’ più complessa.
Siamo condizionati nel bene e nel male dal comportamento del prossimo, in economia è il fenomeno delle esternalità, positive o negative.
Una scena tipica degli anni 90’ camminando per le strade era ad esempio imbattersi in signori e signore che per uscire dall’auto impiegavano anche cinque minuti. Perché? Quasi sempre stavano cercando di inserire correttamente l’antifurto.
Prima dei gps e della tecnologia, l’antifurto più efficace era un attrezzo meccanico che si infilava tra lo sterzo e il pedale della frizione, una sorta di cintura di castità medievale, che serviva però a non farsi “fottere l’auto”. In Italia la pubblicità era “originalissima”: “l’antifurto con le palle”.
La cosa interessante è però un’altra: si trattava di una delle esternalità negative più emblematiche della storia.
Dal momento che questi dispositivi erano ingombranti e visibili, ogni antifurto svolgeva due compiti opposti:
Dire, direttamente, “hey non ti conviene provare a rubare la mia auto”
Dire, indirettamente, “hey vai a vedere se quello che ha parcheggiato accanto è idiota e non ha un antifurto con le palle. Ecco, ruba quella.”
Si, fa ridere. Ma è davvero una roba seria: “Il segnale implicito di questi sistemi (antifurti), però, è che l’auto del vostro vicino – quella senza il bloccasterzo – è un obiettivo più semplice. Il vostro bloccasterzo produce quindi un’esternalità negativa per il vostro vicino che non lo usa, sotto forma di un maggior rischio di furto per la sua auto. Il bloccasterzo costituisce così un perfetto esercizio di interesse personale. (Levitt, Steven D.; Dubner, Stephen J.)
Sistemi di protezione più evoluti, ad esempio i localizzatori satellitari, funzionano in modo opposto: dal momento che sono invisibili, ogni auto che ne possiede uno, e una maggiore adozione, funge da protezione anche per coloro che sono così tirchi da non averne uno nella propria auto.
In maniera generale, il concetto di esternalità positive e negative, è quanto può indicarsi alla base dei movimenti sindacali o di ogni discussione politica: “eh ma se tutti fossimo d’accordo…”
Qual il punto in questa storia?
Ogni persona, professionista, che sguazza in un sistema algoritmo che tende verso il basso (basta vedere ad esempio su LinkedIn i post più popolari e i loro autori) crea esternalità negative:
Assorbe attenzione e viene premiata dall’algoritmo
Instilla in sempre più persone l’idea che questa sia la strada
Dissuade chi a questo gioco non vorrebbe giocare.
Di contro, se più persone usassero i social e in generale il web in maniera diversa, cercando una strada verso l’impegno (ricorda l’esempio dei cornflakes e della colazione perfetta) avremmo un web più sostenibile, “intelligente” e forse anche felice.
Tra i due poli chiaramente vi sono tante sfumature ed è esattamente questo il punto: da quale siamo attratti di più?
Ma la volontà è una cosa, ciò che facciamo un’altra.
Un altro modo secondo me per interpretare questa storia è il dilemma del prigioniero: noi vorremmo… ma non ci sentiamo di scommettere sugli altri.
Come dicevamo prima, a parte i rivoluzionari o masochisti di professione è un bel pasticcio!
Ed è il motivo per cui tanti, i buoni, se ne stanno in silenzio.
E perché a quanto pare anche quelli che erano buoni… beh, stanno anche loro iniziando a parlare di banane e commercializzare banane e masterclass su come vendere le banane.
Gladiatori del terzo millennio? No, grazie. Davvero, ma no grazie.
In un’altra epoca, in un altro mondo, succedeva qualcosa che oggi potrebbe suonare familiare.
Se i gladiatori avevano ben combattuto, dopo qualche tempo veniva loro concesso il congedo o addirittura la libertà.
Se ricevevano i rudis, erano a quel punto più o meno liberi di circolare e soprattutto potevano astenersi dal combattere.
Se ottenevano il pileus (pileo), un berretto di lana bianca, era invece simbolo dell’affrancazione e della piena libertà.
Ci ho pensato l’altro giorno quando un ragazzo mi ha scritto pieno di entusiasmo e mi ha detto che di lavoro fa il “creator”.
Solo a pensare ai “creator” mi verrebbe da scriverci un libro, ma passo.
Però è sintomatico.
Non tanto il fatto che qualcuno sogni di fare il creator. La creator economy intendo.
Attualmente, ma non così diversa dall’economia dei freelance che cercano di accaparrarsi attenzione-reputazione-lavoro stiamo parlando di un’economia gladiatoria: 1 su mille ce la fa. Senza entrare nel dettaglio - non trovo più i dati e mi secco a cercarli - il 2% fa soldi, il 98% fa la fame.
Se lo guardi in termini matematici, senza considerare la situazione di ognuno, la Creator Economy è una grande opportunità.
Ma se ti fermi a pensare un po 'di più, se indaghi, se parli con le persone, scopri facilmente che si tratta di un capriccio statistico: di medie e mediane.
Non così diverso da quella storiella che dice: se Bill Gates entra in un bar, anche fosse il peggior bar di Caracas, chiunque nel bar diventerebbe (statisticamente) un milionario.
La società algoritmica non è così diversa da quella gladiatoria.
È crudele e sbilanciata. ingiusta.
Sarà così anche con il Web.3 quando NFT e metaverso faranno parte della quotidianità.
Per quanto cinico, polarizzato e arrabbiato, penso ci sia del vero ad esempio in quanto scritto da Scott Galloway non molto tempo fa:
“Il pubblicizzato decentramento del potere nelle mani di pochi è stato, di fatto, una ricentralizzazione del potere nelle mani di pochi. Il 9% più ricco degli account detiene l'80% del valore di mercato di $ 41 miliardi di NFT sulla blockchain di Ethereum. La " lista bianca " mantiene la maggior parte dei profitti NFT all'interno di una ristretta cerchia di addetti ai lavori. Bitcoin è ancora più centralizzato: il 2% più ricco degli account possiede il 95% della fornitura di Bitcoin da $ 800 miliardi e lo 0,1% dei minatori di Bitcoin è responsabile della metà di tutta la produzione di mining. Se fosse un paese, Bitcoin avrebbe la più grande disuguaglianza al mondo.”
Mi sento elettrizzato verso il nuovo: ho lanciato un NFT, sto esplorando la possibilità con un amico di offrire servizi nel metaverso, ma è innegabile che anche il nuovo mondo presenti identiche e forse anche accentuate criticità di quello vecchio: media, pre scelte, vantaggi della prima mossa, transumanza più o meno digitale.
Vabbè, sto come sempre divagando.
Quello che volevo dire è che ci troviamo in una società per niente ipermeritirocratica in cui comunque il primo prende tutto.
Male o peggio?
Quasi tutte le culture condividono una storia sulla scelta difficile. Quei casi in cui a un prigioniero viene proposta una morte terribile o una morte ignota. Mangiato dal drago o vuoi tentare la sorte e scoprire chi si nasconde dietro quella porta?
Male o peggio di questi tempi - sino a quando almeno non troviamo una terza via - è invece qualcosa di conosciuto.
Da una parte: non riuscire a stare nel gioco e scivolare lentamente nell’irrilevanza (sempre tenendo conto che stiamo parlando del “loro” concetto di irrilevanza).
Dall'altra parte: vincere nel loro gioco ma subire conseguenze che non ci aspettavamo.
Su quest’ultimo punto, più interessante, mi ha colpito un articolo recente di Mark Schaefer. Racconta di avere lanciato la sua community token su rally.io
Per chi non lo sapesse: i social token sono una forma di investimento decentralizzato e protetto da blockchain con i quali qualcuno o una community offre adesione in cambio di benefit vari. Sono costruiti sullo stesso modello delle comuni criptovalute come bitcoin o ethereum e dunque aggiungono un certo potenziale di tipo speculativo.
Mark Schaefer è uno dei più autorevoli esperti, al mondo, dico al mondo, di marketing, personal branding, content marketing.
Ad ogni modo, Mark racconta in maniera molto chiara e a tratti commovente l’esperienza di un “boomer” che ha a che fare con robe completamente nuove, Un “boomer”, lo ripeto per enfatizzare ma senza alcun disprezzo o senza alcun giudizio, che comunque in questo mondo ci sta e ci sa fare.
Dunque, lancia la sua moneta… e quella moneta va.
Solo che lui sperava, si aspettava, le persone aderissero perché era Mark, per sconti sui suoi corsi, benefit, fare parte di una community.
E invece scopre subito che funziona su altre strade. La sua criptomoneta sale, ma per motivi molto diversi.
“Perfetti estranei stavano spendendo decine di migliaia di dollari per i miei gettoni, sperando in un profitto facile e veloce. Mentre ero entrato nello spazio pensando alla "comunità", la maggior parte delle persone che spendono molto in gettoni Rally stanno pensando "merce". Il marchio Mark Schaefer veniva scambiato come pancette di maiale e futures sull'olio.A quel punto ho avuto una crisi esistenziale. Che diavolo stavo facendo?”
A mio avviso questo deve portare a ripensare tutto. A partire dalla teoria di Kelly sui 1000 veri fans (hai bisogno solo di 1000 fans che ti paghino tot per arrivare a tot).
Voglio dire: non è solo un problema di qualche sfigato che non ce la fa nel gioco. È un problema economico e di significato, anche chi nel gioco vince e trova un premio diverso da quello per il quale stava lottando.
Vie di uscita: imprevisti e possibilità
Chi mi conosce lo sa: sono più a mio agio nelle domande che nelle risposte.
Al momento, se proprio devo concludere con qualche punto questa riflessione, ho giusta qualche idea generale. Tracce non risposte definitive che per primo mi impegno ad esplorare.
Innanzitutto credo sia giunto il momento.
Di riequilibrare i giochi.
Di cambiare le regole del gioco.
Di abbandonare il gioco.
O, se proprio non è possibile uscire dal gioco, giocare in modo diverso.
Credo sia giunto il tempo (ma così, per dire, lo scrivevo già nel 2018 su Linkiesta) di puntare a qualcosa di più ambizioso e più esclusivo: meno numeri, meno “medie”, più impegno.
Pensandoci mi sa che su questo si dovrebbe aprire un altro lungo discorso ma mi rendo conto che sin qui di cose ne ho già dette tante.
Per cui, facciamo che oggi vi ho lasciato, spero, solo con qualche buona domanda.
A presto.
…
Ah no.
C’era quella domanda dalla quale eravamo partiti: perché una newsletter su Substack e non su LinkedIn?
Perché una newsletter su Substack e non su LinkedIn?
Beh, per tutto ciò che ho detto sino ad ora.
Amo LinkedIn. Ci ho creduto da subito e devo moltissimo a LinkedIn.
Solo che è qualcosa di vecchio che ogni tanto si veste di nuovo.
Se scorri il feed troverai tutto ciò di cui abbiamo parlato: contenuti stupidi, superficiali che ottengono tanto coinvolgimento e sono - volutamente premiati.
Troverai post come quello con Brunello Cucinelli che ti dice che siamo tutti stressati e quello che dice “credi in te stesso” a sovrastare il feed.
Troverai, soprattutto, la presunzione che siano queste le idee migliori. Come le banane nel discorso di prima.
Ecco, io non accetto che qualcuno mi dica che frutto mangiare.
Vorrei scegliere da me.
E non gioco con chi si comporta così, pensando che tanto non possiamo fare niente.
Io, noi, possiamo.
Non dico uscire dai giochi - sarebbe ipocrita dirlo dal momento che il 90% di chi legge questa newsletter arriva da LinkedIn - ma di sicuro cambiare il modo in cui giochiamo e il premio che desideriamo.
Potevo fare una newsletter, pigiare un tasto, “pubblica”, e avere in meno di 12 ore 7000 iscritti a una newsletter.
Ma non sarebbero comunque persone impegnate.
Sarebbero solo partecipanti a un gioco: il gioco delle medie e del zero impegno.,
Un gioco a cui non mi va di giocare.
Perché sto cercando di diventare grande.
Perché non fa bene né a me né al mio business.
Perché io ci tengo alla mia rilevanza.
E cerco in tutti i modi di spostarla in quell’area lì: quella in cui provo a incidere io.
Non le piattaforme, gli algoritmi, gli amanti, i possessori, i commercianti di banane.
Ho scelto Substack perché nella mission dei fondatori si legge questa cosa qui: “da piattaforme che possiedono persone a persone che possiedono piattaforme”.
Ho abbastanza esperienza per capire che non è proprio così e che non è oro tutto ciò che luccica né vero tutto ciò che attacchi in un manifesto e chiami mission.
Rimane comunque un buon punto di partenza.
Non una newsletter su LinkedIn perché ormai è chiaro che, per quanto sia il social migliore per un professionista, è chiaro che non abbiano a cuore il professionista: non me, non te.
Non investo tempo su una piattaforma dove scrivo da quasi 10 anni ma mi vedo attivare la newsletter solo adesso, il mese scorso per l’esattezza, quando altri spuntano dal nulla e inviano newsletter da oltre un anno a furia di gattini e dai che ce la famo…
Non investo tempo in una piattaforma che, rimanendo all’esperienza italiana, hanno messo due ragazzini a fare le news di giornata e ogni giorno trovo in evidenza: “il manager Pinco Pallino ha detto che bisogna trattare bene le persone…”
Credo, non solo per quanto riguarda LinkedIn, sia chiaro, è tempo di comprendere che le piattaforme siano utili, anche indispensabili, per il networking non per il marketing personale. Non per la creazione di asset e rilevanza personali.
E, se da un paio di anni, chiediamo che i brand prendano posizione su temi sociali, è tempo anche per le persone fare altrettanto.
La mia posizione è questa: viva LinkedIn, viva tutti i social ma la mia rilevanza non può e non deve dipendere da cosa credano sia giusto e conveniente quattro miliardari e un manager dall’altra parte del mondo.
Che altro dire?
Non avrò 1000 iscritti alla newsletter? Esticazzi.
Però se tu leggi e vuoi iscriverti qui, beh in questo caso mi fa molto piacere :)
About me
Penso, scrivo e lavoro dalla Sicilia. In un piccolo paesino tra montagna e mare insieme alla mia compagna, i miei tre figli e cinque cani.
In passato sono stato un ghostwriter, un oste, un addestratore cani, un consulente strategico per persone straordinarie e diverse aziende globali.
Piango ancora se penso che Baggio non gioca più. Mi irritano quelli che sanno tutto, i caroselli e i sondaggi su LinkedIn, le ricette facili per il successo e le definizioni stereotipate del successo. Per come la vedo io, su questa terra, siamo tutti qui a cercare ancora di capirci qualcosa.
La missione oggi è aiutare persone come me a creare, vivere e raccontare modelli di business rilevanti per il mercato ma che non debbano in cambio sacrificare i nostri valori e la nostra vita.
➟ Se vuoi sapere se posso darti una mano fai un salto qui
Dxh6, Rxh6 (se Rg8 Dg7#) Th4#
Sono finita qui con una domanda a google che non ha trovato risposta. Ho capito la metà delle cose che hai scritto, ma in questa metà mi ci ritrovo, e quindi mi iscrivo.