Diversifica te stesso
Su come ci sentiamo con noi stessi e su cosa ci fa alzare dal letto la mattina non siamo obbligati a scegliere su cosa puntare.
Ci sono stati momenti in cui il lavoro è stato per me qualcosa di molto semplice.
È iniziata presto.
A 16 anni lavoravo due pomeriggi a settimana e anche qualche mattina in un negozio di articoli per animali. A volte mi costava qualche partita di calcetto, altre volte un compito in classe di greco o latino, ma in genere erano sacrifici che sopportavo serenamente.
Gli animali mi hanno sempre entusiasmato, i cani sono ancora una parte imprescindibile della mia vita, quando ai tempi ci fu l’occasione di lavorare in quel mondo non ebbi alcun dubbio.
“Ci sto”, dissi.
Qualche ora più tardi avrei scoperto che in realtà non si sarebbe trattato del lavoro dei miei sogni. Più che un’incursione in una puntata di SuperQuark, circondato da animali curiosi e affascinanti, il mio compito consisteva più che altro nello spostare pacchi di mangime da una parte all’altra della bottega, pulire lettiere, dare retta ai clienti che, tipicamente, mi chiedevano il mangime per questo o quel volatile o impazzivano dalla curiosità per il sesso di quei cardellini in gabbia - per inciso non ho mai capito come si determina il sesso negli uccelli e ho sempre risposto random confidando nella statistica e che per la metà delle volte ci avrei azzeccato.
Nonostante questo lavorai in quel negozio per più di un anno e non ebbi mai dubbi in merito. Tutte le rogne, la noia, le partite di calcetto saltate, erano compensate in maniera molto chiara: con una certa quantità di soldi. Sinceramente non ricordo quanto ma so che per quanto potessero essere pochi erano per me abbastanza.
Abbastanza per fare funzionare un semplice paradigma: mi annoio qui, prendo soldi lì, li spendo in ciò che mi piace di là.
L’altra cosa che mi faceva sentire speciale era essere entrato precocemente nel mondo degli adulti, in quelli che sgobbano, faticano, magari fanno anche un lavoro di merda ma che poi hanno i soldi per fare la spesa al supermercato.
Qualche anno più tardi avrei ritrovato la stessa sensazione sotto forma di obbligo. Non si trattava più di giocare a fare gli adulti ma di comportarsi da adulti e pensare alla famiglia.
Con i primi due figli per casa, il mio approccio non era così distante dagli anni dell’adolescenza e del sesso dei cardellini: mi davano un lavoro da fare e una certa quantità di soldi. E andava bene. Punto.
Saltavo da una stanza all’altra della casa gridando a mia moglie “hey devo scrivere una guida turistica… mi danno tot”. “Hey adesso devo scrivere un manuale per un’aspirapolvere, mi danno tot”. “Oh, la scuola di danza sotto casa mi dà tot per fare questo…”
Era tutto una merda e tutto una gioia.
Ma la cosa davvero interessante di questa storia è che ero stanco, a volte annoiato, ma non esaurito, nessuna sensazione di quel burnout di cui si parla tanto oggi e che negli ultimi anni invece anche io ho conosciuto da vicino.
Quando si parla dei problemi del lavoro, tanto più quando si parla - e di solito non succede - dei freelance, si tende a parlare sempre di paghe da fame, di sfruttamento, di persone che non arrivano a fine mese, di troppe ore di lavoro. Si parla insomma sempre in termini di povertà ed eccessiva fatica.
Credo che però tutti questi discorsi manchino il punto: non si tratta del lavoro, si tratta di ciò che pensiamo del nostro lavoro. Della relazione che abbiamo sempre dato e non riusciamo a scrollarsi tra lavoro e vita, tra professione ed identità personale.
Anche chi dice “tu non sei il tuo lavoro” fa secondo me un buco nell’acqua.
Vale per chi fa un lavoro in cambio di soldi non avendo alternativa o non volendola cercare. Vale quando consapevolmente scambi tempo o competenze in cambio di soldi e non nutri ulteriori aspettative.
Paradossalmente, tutti quei lavori che definiamo di merda hanno un grande vantaggio: non puoi impegnarti con il tuo lavoro, non entri in flusso, non finisci a fantasticare su cosa potrai diventare un domani, non ti scervelli la notte su come diventare, tramite il tuo lavoro, un essere umano migliore.
Ad essere onesti non l’ho sempre pensata così.
Nel negozietto di animali no, ma quando ho iniziato a lavorare come freelance, scrivendo qualsiasi cosa per chicchessia, l’ho sempre fatto tanto per pagare l’affitto quanto per cercare di inseguire una strada. Solo che sino a quando hai un problema economico, primario, non ci pensi molto.
Il problema subentra salendo i gradini. La piramide di Maslow ma ancora di più la teoria dei due fattori di Frederick Herzberg.
Igiene e significato
Secondo Herzberg la nostra mente non funziona seguendo il comune presupposto secondo cui la soddisfazione lavorativa si presenta come un ampio spettro ininterrotto: a un estremo «molto felice» e all’altro «molto infelice», passando per tutte le gradazioni intermedie. Al contrario, la soddisfazione e l’insoddisfazione sono due aspetti separati, sono misure indipendenti. Ciò significa, per esempio, che è possibile amare e odiare al tempo stesso il proprio lavoro.
In questo incidono due fattori: i fattori di igiene e quelli di motivazione (o significato).
I fattori di igiene sono tutte quelle condizioni che se non soddisfatte causano insoddisfazione: lo status, che per un freelance potrebbe essere avere e sentire riconosciuta una certa identità, ma soprattutto la retribuzione e la certezza dei guadagni; non molto diverso come detto dall’interpretazione gerarchica proposta da Maslow.
È interessante notare che Herzberg considera la retribuzione un fattore di igiene, non un fattore motivazionale.
I fattori di motivazione o significato sono invece il riconoscimento, la responsabilità, gli stimoli, tutto ciò che è percepito come crescita personale. La sensazione di dare un contributo significativo nel lavoro deriva cioè da condizioni intrinseche del lavoro stesso.
Come ha fatto notare chiamando in causa proprio questa teoria, Clayton Christensen, è importante notare che: “la motivazione non ha quasi nulla a che vedere con le sollecitazioni e gli stimoli esterni, ma al contrario si basa su ciò che è dentro di voi e nel vostro lavoro.”
Tornando al “me” di qualche anno fa, sperando di non banalizzare troppo una così importante teoria, ciò che mi serviva era solo assecondare fattori igienici.
Così come, una certa tranquillità mentale, era più o meno garantita dall’accettazione totale del fatto che il lavoro fosse per definizione faticoso e spiacevole e che dunque gli adulti sapevano ben dividere tra lavoro e significato in diverse aree della vita.
Fare un lavoro monotono, privo di significato, avere euro a sufficienza per guardare un film in famiglia senza l’assillo del padrone di casa che reclama l’affitto, non solo mi pareva un buon compromesso ma ero convinto fosse il vero gioco a cui poter giocare.
Non così diverso dagli amici che lavoravano in fabbrica e non vedevano l’ora arrivasse il fine settimana, ma avevano soprattutto i soldi per andare a cena fuori il fine settimana e dare senso ad una settimana da incubo.
Burnout
Adesso andiamo al punto in cui si complica la storia: cosa succede quando i fattori di igiene sono soddisfatti? Qui le cose si complicano.
Definire i soldi che ti servono per sopravvivere è piuttosto semplice. Esultare per avere ottenuto i soldi che ti servono per comprare il latte e le sigarette è abbastanza semplice. Ma che dire invece del significato delle nostre vite?
È complicato.
Non a caso, per quanto le statistiche dicano che buona parte di noi umani abbiamo soddisfatto le esigenze primarie, siamo anche la generazione più in crisi di sempre, la generazione “burnout”.
Con questo termine ci ho fatto i conti più volte durante gli ultimi anni.
Mi sono sentito esaurito, rotto, bruciato, senza voglia di alzarmi dal letto, senza tranquillità per riuscire a dormire.
Mi sono ammattito cercando di trovarne le cause e i rimedi. Rimproverato accorgendomi di non avere “reali motivi” per sentirmi così.
Il burnout ha molto in comune con ciò che circonda il fenomeno della depressione: tutti ne soffrono in maniera diversa, chi non lo vive non capisce, tende a sminuire e ridicolizzare.
La comunicazione di massa continua a parlarne in maniera quantitativa: “lavori troppo”, “troppi stimoli”, ma la verità è molto diversa.
È una questione più intima, profonda, legata più a ciò che pensiamo sia il lavoro che al lavoro che svolgiamo.
Ha ancora a che fare con igiene e significato.
Il punto non è avere un lavoro che ci permetta di mangiare o avere un lavoro che non ci faccia sentire costantemente uno schifo. Il punto è avere in testa una buona storia su ciò che stiamo facendo e dove stiamo andando.
I fattori di igiene, qualcuno che ti paghi e una certa prevedibilità, può sembrare un problema ma è tutto sommato qualcosa cui un freelance dovrebbe saper rimediare.
Anche se so benissimo che molti freelance, così come tanti piccoli imprenditori, inventano un lavoro perché incapaci di trovarne uno, io credo dovrebbe funzionare al contrario.
Fai impresa o scegli di essere freelance - non così dissimili - perché certo di poter ottenere qualcosa di più e alle tue condizioni.
Ciò è stato recentemente confermato anche da un sondaggio di larga scala ben raccontato anche di recente da Steve Blank: chi fa impresa è presuntuoso, e quasi sempre ha ragione.
Certo se stai iniziando può essere dura. Certo, ci sono momenti in cui i piani saltano e ti ritrovi in difficoltà a dover ricominciare.
Ma mi rifiuto, parlando di freelance, di pensare che il problema siano i soldi. Non sono i soldi. È il senso.
È la strada che ogni tanto non vediamo più.
É la ricerca di significato che incasina tutto. Ma è anche soprattutto dove lo cerchiamo.
Approcci comuni e altri problemi
→ Gestire se stessi (livello base)
Il nostro Modello di Business personale non è solo come crediamo di fare soldi e come assecondiamo i fattori di igiene ma anche come intendiamo inseguire i nostri fattori di significato. Prima di avventurarsi in canvas e altre valutazioni penso sia necessario e sufficiente rispondere a 3 domande principali, come già consigliava una vita fa Peter Drucker: “Quali sono i miei punti di forza? Come lavoro? Quali sono i miei valori?”
In maniera ancora più semplificata:
Cosa mi piace fare che potrebbe anche fruttarmi dei soldi?
A questa domanda rispondiamo tutti, e secondo i momenti, in maniera diversa. Ma si tratta comunque di scegliere.
man mano che diventi più autorevole e indipendente, aumenta gradualmente le parti del tuo lavoro che ti piacciono a spese di quelle che non ti piacciono.
lavora forte su cose che non ti piacciono per permetterti di lavorare su ciò che ti piace fare.
Come posso fare soldi sino a quando non riesco a farmi pagare ciò che mi piace fare?
Il punto b è anche quello la sintesi di quello che Paul Graham definisce l’approccio “Two Routes”. Un’applicazione esasperata, secondo me anche poco sostenibile, è quella dell’anno sabbatico (fatti il culo un anno per avere poi un anno per sperimentare). Una variante è quella di avere settimane "anti sabbatiche" ma è qualcosa che funziona solo in teoria dal momento che difficilmente il mercato lavora ai tuoi ritmi.
→ Complicazioni (la realtà)
Nel corso degli ultimi cinque anni ho sperimentato l’approccio di sopra…e non ha funzionato. Non è detto che non funzioni anche per te ma sono sempre più convinto che anche questo non colga il vero problema di cui stiamo parlando: l’identità.
“Man mano che diventi più autorevole e indipendente, aumenta gradualmente le parti del tuo lavoro che ti piacciono a spese di quelle che non ti piacciono.” è maledettamente difficile.
Più diventi autorevole e meglio ti pagano. Più ti specializzi e più cose hai imparato a cui è difficile rinunciare. Ci si ritrova in un momento in cui sei arrivato (relativamente) così in alto che scendere e ricominciare appare una follia e forse lo è.
Ne avevo già parlato qui. In maniera sintetica: quando penso alle nostre carriere penso a due montagne. Da scalare.
Ogni scelta ci porta a una montagna diversa e di tipo diverso: più o meno ripida, più o meno faticosa, più o meno redditizia, più o meno entusiasmante.
A un certo punto della nostra vita, per semplificare, però ce ne sono solo due. L’immagine che segue è la migliore rappresentazione che sono riuscito a fare.
La montagna di sinistra è quella che stiamo scalando. Possiamo trovarci ai piedi della montagna, in qualche punto tra la base e la vetta o anche in cima.
La montagna di destra è una “montagna alternativa”, una montagna dove ci saremmo potuti trovare prendendo scelte alternative. O una montagna che potremmo pensare di scalare.
La montagna di sinistra ha un premio, più o meno facile da raggiungere, noto. La seconda, la montagna alternativa, per definizione ha un risultato incerto.
Vincolo: per passare dalla montagna di sinistra a quella di destra occorre prima scendere da quella di sinistra. A volte può significare scendere dalla cima a un punto più basso; in termini economici: se vuoi iniziare a dedicarti ad altro, esplorare un determinato campo, è presumibile che inizierai a dedicarne di meno a quello attuale e guadagnare qualcosa in meno.
Il secondo approccio invece, “lavora forte su cose che non ti piacciono per permetterti di lavorare su ciò che ti piace fare.”, detto che può comunque portare ai problemi del primo approccio (ingabbiato dalle ricompense che ricevi) equivale al vivere come un automa e sprofondare in una spirale (eccolo sto cazzo di burnout) dal quale poi è difficile uscirne.
In entrambi i casi bisogna fare i conti con continue crisi di identità.
Chi siamo? Chi vogliamo diventare? Come ci stiamo impegnando per diventare chi vorremmo diventare?
Dirsi "sì ma io sono questo… sto cercando di diventare questo”, non funziona se ogni giorno vai in tutt’altra direzione.
→ Diversificare se stessi (livello base)
Qualcosa che mi ha invece aiutato e mi sta aiutando tuttora è il concetto di diversificazione della propria identità.
L’idea di diversificare le proprie identità non è nulla di nuovo ed è qualcosa che viene spesso affrontato anche parlando di malattie mentali o in quei momenti in cui una parte di noi diventa così dominante da oscurare tutto il resto e lasciarci smarriti; ad esempio le donne che lavorano ne sono affette spesso quando si ritrovano a dover prendere un congedo.
Mark Manson ha tempo fa affrontato l’argomento raccontando uno degli show di Tony Robbins in cui un uomo di mezza età tra il pubblico si è alzato e ha confessato di avere tendenze suicide.
Era un broker che aveva fatto fortuna sino al giorno in cui improvvisamente ha perso tutto.
Voleva suicidarsi perché così la sua polizza di assicurazione sulla vita avrebbe pagato abbastanza per mantenere sua moglie e i suoi figli dopo che se ne sarebbe andato, mentre se fosse rimasto in vita, la sua famiglia sarebbe stata gravata dai debiti.
Ciò che colpisce, dice Manson, è la sconcertante convinzione di quest'uomo che i suoi figli abbiano bisogno di stabilità finanziaria più di un padre .
Ma, soprattutto, che “quest'uomo percepisce il valore della propria vita come nient'altro che finanziario.”
Non riconosce alcun senso come padre, marito, amico, compagno, per non parlare di altre abilità o hobby. Non è solo che pensa che i suoi figli starebbero meglio con i soldi che con lui, è che crede che il suo unico valore come persona sia la sua capacità di fare soldi.
Diversificare la tua identità ti permette come negli investimenti di non “perdere” mai tutto.
Tim Ferris ha espresso un concetto analogo in un famoso video.
Quando hai soldi, è sempre intelligente diversificare i tuoi investimenti. In questo modo se uno di loro va male, non perdi tutto. È anche intelligente diversificare la tua identità, investire la tua autostima in ciò a cui tieni in una varietà di aree diverse - affari, vita sociale, relazioni, filantropia, hobby - in modo che quando uno va male, non sei completamente fregato. Tim Ferriss
→ Diversificare se stessi (livello avanzato)
Si, mi sembra estremamente ragionevole. Ma non risolve il problema dell’identità di un freelance e di chi fa un lavoro così identitario.
Tolte le questioni economiche (i fattori di igiene), non essere soddisfatti della propria attività lavorativa influisce in questi casi in maniera troppo forte su tutte le altre sfere.
Penso ad esempio, cambiando letteralmente “campo” agli sportivi che terminata l’attività agonistica, pur senza alcun assillo finanziario, finiscono per trovarsi così svuotati di senso e identità da non riuscire a godersi nulla. Penso il ragionamento funzioni anche con molti manager e di sicuro con i freelance.
Quello che allora credo sia più interessante è diversificare le nostre identità professionali. Non solo investimenti. Non solo progetti. Non solo flussi di entrata.
Ma soprattutto metriche personali. Le fonti di senso e significato delle nostre vite.
Così come ogni imprenditore e freelance sa quanto sia rischioso affidare il nostro futuro a una sola entrata e a un solo cliente, è importante anche che la nostra soddisfazione, il nostro significato non sia misurato e percepito con una sola metrica o influenzata da un solo fattore/cliente/progetto.
Cosa stai facendo per rimanere in piedi - economicamente.
Ma anche cosa stai facendo per rimanere umano, vivo.
Reputazione
Visibilità
Prestigio dei progetti
Piacevolezza dei lavori
Significato dei progetti ai quali si lavora
Crescita personale
Sperimentazione
Novità
Adrenalina
…
Sono tutti fattori di significato, metriche con cui fare i conti.
Ogni volta che otteniamo consenso ci sentiamo forti e fieri della nostre identità. Ma quando le cose iniziano ad andare meno bene ecco che entriamo in crisi.
E a questo punto che si fa? Cambiare?
Qui tornano i problemi degli approcci visti prima.
Una delle trappole ad esempio della specializzazione, e in generale credo di un errato concetto di personal branding, sta proprio in questo: creiamo “brand” per farci riconoscere, per “dominare” una nicchia o un segmento di mercato, ma dimentichiamo che noi invece cambiamo e poi magari non ci troviamo più.
Scendere da una montagna e salire su un’altra a quel punto è difficoltoso.
Bruce Kasanoff, un influencer di LinkedIn, che seguo ed ammiro da anni, blogger su Forbes e costantemente attorniato da celebrità e pensatori di spicco, l’altro giorno ha ammesso di sentirsi un dilettante e che questo lo faccia sentire uno schifo.
Io ricordo quando Bruce un paio di anni fa era una voce fuori dal coro, l’unico capace di scrivere robe che venivano condivise e ricondivise. Ma oggi, tra meme strepitosi e copia e incolla selvaggio, con una nuova schiera di giovani creatori, è facile per lui (e non solo) sentirsi smarrito.
Nel mio piccolo ho vissuto lo stesso problema.
Tra il 2017 e il 2018 mi sentivo di aver capito tutto e hackerato il mondo digitale. Ogni boiata di post che scrivevo faceva 100k visualizzazioni. Millionaire mi chiedeva un’intervista su come usare LinkedIn, su Linkiesta nasceva il mio blog (primo e unico a parlare di LinkedIn su un media riconosciuto), a Milano ad un evento organizzato mi ritrovai a parlare con una sessantina di persone in processione. Tutti ci tenevano a parlare con me.
L’altro giorno ho scritto a un tizio che mi sembrava interessante per farci una chiacchierata e per prima cosa mi ha chiesto: “tu che fai?”
Boh. Che ne so che faccio.
Posso identificarmi come blogger. Ma non tengo più il ritmo per scrivere ogni giorno o con regolarità.
Posso identificarmi come un esperto di comunicazione social ma cambiano così tante cose in una settimana che mi gira la testa solo a starci dietro.
Posso identificarmi come “uno che parla” ma parlano tutti, alcuni meglio, altri hanno più appeal.
Se sino a ieri credevo di dover trovare un “vantaggio ingiusto” oggi credo ne servano più e che siano soprattutto personali e sostenibili.
La pandemia poi ha fatto emergere qualcosa che sapevamo ma fingevamo di non sapere: è tutto un fottuto caos, un insieme di caso e casualità.
Sinceramente, non sono più sicuro né su cosa convenga puntare né su cosa sono felice di puntare.
E allora scelgo tutto.
Oddio, non proprio tutto ma più cose sì.
Un range di cose, per dirla con Epstein.
E soprattutto faccio più cose. Investo in più cose, più progetti, più sfumature di me, per alimentare più versioni, identità, di me.
In modo da avere una scintilla ogni mattina. Anche se magari qualcos’altro è in calo come Apple in questi giorni.
Se diversifichi, la vivi meglio 🏴☠️
About me
Penso, scrivo e lavoro dalla Sicilia. In un piccolo paesino tra montagna e mare insieme alla mia compagna, i miei tre figli e cinque cani.
In passato sono stato un ghostwriter, un oste, un addestratore cani, un consulente strategico per persone straordinarie e diverse aziende globali.
Piango ancora se penso che Baggio non gioca più. Mi irritano quelli che sanno tutto, i caroselli e i sondaggi su LinkedIn, le ricette facili per il successo e le definizioni stereotipate del successo. Per come la vedo io, su questa terra, siamo tutti qui a cercare ancora di capirci qualcosa.
La missione oggi è aiutare persone come me a creare, vivere e raccontare modelli di business rilevanti per il mercato ma che non debbano in cambio sacrificare i nostri valori e la nostra vita.
➟ Se vuoi sapere se posso darti una mano fai un salto qui
Davide hai sempre la capacità di tradurre in parole pensieri che ancora non hanno una forma chiara dentro di me: grazie!
Ciao Davide, mi riconosco nelle tue parole e le tue considerazioni sono sempre interessanti e molto oneste. Bentornato.