C’è una Great Resignation anche per i freelance (bisogna dirlo ed era l'ora)
Notizia per i più distratti: anche i freelance sono persone. Non vogliamo solo soldi, ma anche e soprattutto significato.
Il fenomeno della Great Resignation, le dimissioni di massa di persone con un lavoro stabile ma alla ricerca di significato, dice un paio di cose interessanti.
La prima, ovvia, è che le persone sono appunto persone.
Lo abbiamo letto nei libri, lo abbiamo studiato, soprattutto lo sappiamo: i soldi non bastano.
O meglio, bastano sino a un certo punto.
Neanche la certezza di un lavoro e di un tetto sulla testa basta.
Basta sino a un certo punto.
Maslow, che se esiste davvero un altro mondo si sarà anche stancato di sentirsi nominare, aveva maledettamente ragione. Siamo in cammino, appesi a un piramide. Dalla soddisfazione di bisogni primari a un qualcosa di più.
Significato. Quello che i più audaci chiamano “felicità” e i più scaltri, e gli americani ovviamente, “ricerca della felicità”.
Di questo ne ho parlato così tante volte da essere ormai noioso anche per me.
L’altra cosa interessante di questa storia, è che “il fenomeno” racconta di un altro fenomeno: i freelance non se li fila nessuno.
Un po’ come i discorsi sulla discriminazione di genere o il problema “maternità” in azienda.
Ci sono discorsi, libri, convegni, più articoli di quanto ce ne sia davvero bisogno che parlano dell’ingiustizia di donne pagate meno di uomini, prese in considerazione meno di uomini, non scelte (assunte) o cacciate (licenziate) per paura di incappare in ciò che più di naturale c’è a questo mondo: una gravidanza, un figlio.
Di contro, quanti libri, articoli, convegni, parlano del fatto che le donne freelance siano considerate e spesso pagate di meno?
Quanti si preoccupano del destino di una freelance al momento di dover, necessariamente, almeno un po’ staccare la spina per dare alla luce un figlio?
E quanti pensano che anche i papà freelance abbiano stessi problemi e diritti?
Il tema è spinoso. Ma non è neanche questo il punto.
Il punto è che questo specialissimo momento, questa speciale era che stiamo vivendo, questa “nuova normalità” fatta di incertezza, certezze crollate e fottutissimo desiderio di qualcosa di più, beh questa storia ci riguarda tutti.
Anche se nessuno ne parla.
C’è una Great Resignation anche Freelance.
Certo, non lasciamo un posto fisso. Ma mettiamo ugualmente in discussione certezze e prevedibilità economica.
Mettiamo in discussione modi facili, più facili, sicuri o più sicuri, di portare soldi a casa per qualcosa di diverso.
Diverso.
A me viene sempre in mente Ambrogio e la signora in giallo.
“non è fame, è voglia di qualcosa di buono”.
Non è bisogno, è voglia di qualcosa di buono. Di diverso.
Almeno di provarci, cazzo!
Negli ultimi mesi personalmente ho detto “no” e “basta” a una discreta quantità di soldi “sicuri”.
Non fa di me un eroe. Non fa di me neanche un esempio di coraggio.
Però, mi interessa dirlo anche a nomi di chi si ritrova in quello che dico, non sono neanche un pazzo.
C’è una Great Resignation anche Freelance.
Anzi, pensandoci noi abbiamo ancora più motivi per dare le nostre “dimissioni” da ciò che non è compatibile con le nostre vite, con ciò che è tossico.
Nella Genesi c’è quella parte in cui si dice “Ti guadagnerai il pane col sudore della fronte” e “ tu donna, partorirai con dolore”.
Uomini o donne, i freelance, si possono facilmente ritrovare nella maledizione per eccellenza. Siamo chiamati a “faticare” di più.
Basta pensare al carico emotivo del nostro lavoro, fatto appunto di scelte in bilico tra coraggio e incoscienza, sogni e responsabilità.
Ma c’è un però.
Siamo forse quelli che davvero hanno il libero arbitrio.
Che, in parte, è una buona notizia.
Possiamo scegliere. Potenzialmente, possiamo sottrarci al fare un lavoro di merda e vivere un lavoro di merda.
In parte, più realisticamente, è una cattiva notizia.
Perché se sei dipendente e non ti piace la tua vita è più o meno facile appellarsi al “il lavoro è così”, “però hai un posto fisso”.
Nel caso del freelance tutta questa scelta equivale invece a un “l’hai voluta la bicicletta e allora pedala”. Chi è causa dei suoi mali pianga se stesso.
Il problema della modernità, è il problema congenito dell’essere un freelance.
Una volta, tanto tempo fa diciamo senza andare ad essere pignoli con i libri di storia, tutti avevano un posto nel mondo e amen.
Dipendeva pochissimo da te.
Se eri nato da una famiglia povera, mica potevi sperare in chissà cosa.
Certo, faceva schifo, ma almeno c’era l’idea che non fosse colpa tua continuare a marcire in un letamaio.
Quando una volta si vedeva un mendicante all’angolo della strada si provava pena. Perché appunto non era mica colpa sua. Era il fato o Dio o qualcos’altro qualcun altro ad averlo piazzato lì.
Illuminismo, liberismo, capitalismo, e infine questo mondo social apparentemente dorato, hanno stravolto tutto.
Siamo, adesso, artefici del nostro destino. L’homo faber (fortunae suae…) è roba di questi tempi.
E per i freelance questa storia, all’ordine del giorno, è tanto buona novella quanto condanna.
Infine, tornando a questi tempi schizofrenici e desiderosi di novità, non si tratta neanche più solo di soldi. Di successo inteso tradizionalmente.
Si tratta di quella roba lì, di quella piramide da scalare in cerca di senso e significato.
Non se ne parla, ma non dovrebbe sorprendere: c’è una Great Resignation anche Freelance.
Un po’ rassegnazione, le cose in realtà vanno peggio di quanto ci eravamo raccontati.
Un po' di speranza: e chi l’ha detto che deve andare così?
Siamo quelli che risolvono i problemi, ma è tempo di pensare (anche e prima) ai nostri
Questa roba l’ho già detta ma penso sia sempre l’occasione per ricordarla.
E comunque in testa c’ho questa roba qui.
Sei pagato in maniera direttamente proporzionale alla tua capacità di risolvere il problema di qualcuno, di svolgere e/o aiutare qualcuno nel suo “job”, nel suo personale viaggio da un qualche punto A ad un punto B. QUESTO però ti dà nella migliore delle ipotesi una certa quantità di soldi.
Sei ricompensato, in termini di senso e significato, in maniera direttamente proporzionale a quanto questo risolvere il job di qualcuno contribuisca a risolvere il tuo. QUEST’ALTRO INVECE è quello che ti mette in cammino verso il significato.
Ora, la domanda che bisogna farsi è se davvero questa ricerca di significato sia una roba da pazzi incoscienti o possa essere praticabile?
SPOILER: Sì, si può fare.
Per farlo: sbarazzarsi di idee vecchie e che per anni abbiamo dato per inconfutabili.
Predicatori o marketer (una storia vecchia, rotta, bruciata)
La prima cosa che impari quando entri nel mondo degli adulti è che il tuo lavoro non riguarda affatto la tua passione.
Per convincerti ci sono diverse storie che, all’apparenza, ti spiegano tutto alla perfezione.
Ad esempio, anni fa, in un periodo in cui tutto girava storto, lessi un articolo e dopo aver finito mi alzai dalla sedia come illuminato. Avevo capito tutto.
L’articolo parlava di una differenza sostanziale tra il cercare di convincere le persone e dare alle persone ciò che vogliono davvero.
In teoria non fa una grinza, e l’uso dell’analogia e un po’ di storytelling rendevano tutto terribilmente convincente.
I predicatori, immagina un prete cattolico che si fionda in una tribù politeista, vanno lì e cercano di fare cambiare idea alle persone. Qualcuno ci riesce, altri falliscono, altri ancora vengono cacciati via in malo modo o anche peggio.
Il marketer agisce in modo diverso. Si mette lì buono, buono, cerca di capire le usanze del posto e cosa comprano volentieri, e poi vende loro un qualcosa “in cui credono” con qualche piccola miglioria tale da giustificare un prezzo più elevato o l’abbandono di una vecchia soluzione o idea.
A distanza di anni la penso in maniera molto diversa e sono convinto che una distinzione di questo tipo sia poco redditizia e poco sostenibile.
I predicatori, che pure sono in mezzo a noi e ogni tanto siamo noi, sono solo gente finita nel posto sbagliato.
I marketer come li definiva l’articolo, è solo gente che pensa che si possa fare business collegando un problema a una soluzione, ma dimentica che come esseri umani a noi, lato venditori intendo, non basta “un problema” qualsiasi.
È proprio pensare che il nostro compito sia risolvere “un problema”, un “problema qualsiasi”, un “problema profittevole”, che porta poi tante persone, specie tanti freelance, a trovarsi presto o tardi spenti, vuoti, bruciati.
La verità è che puoi quasi sempre trovare una domanda non soddisfatta nel mercato ma soddisfare quella domanda e soddisfare la tua vita sono cose diverse.
Ad eccezione di coloro che hanno il coraggio di definirsi “Imprenditori seriali” e ci provano gusto a passare da un problema ad un altro, da un settore ad un altro, credo che questo sia poco compatibile, sostenibile, con il nostro essere umani.
Come umani, e come umani “strambi” in quanto freelance, credo che tutti vorremmo non solo fare un lavoro che ci porti soldi ma anche un lavoro capace di dare significato alle nostre vite. Questo significato è intimo, personale.
Ne consegue, o così almeno sono sempre più convinto, che il problema da risolvere non basti. Non basta “un problema”, serve “il problema”.
Persone che cercano soluzioni da vendere per qualche genere di problema e persone che vogliono risolvere un problema
Anche se non è così incisiva come la distinzione tra “predicatori” e "marketer", oggi penso che i freelance, ma in realtà chiunque faccia impresa, possa dividersi in due grandi categorie: persone che cercano soluzioni da vendere per qualche genere di problema e persone che vogliono risolvere un problema
Persone che cercano soluzioni da vendere per qualche genere di problema
Chiunque, senza necessariamente essere una cattiva persona, si lascia guidare dalle opportunità. Tipo: le persone cercano questo, io più o meno ho una soluzione, vendo questo.
Dentro questa categoria poi si possono ulteriormente trovare:
persone alle quali non interessa se una soluzione funzioni davvero o sia ciò di cui avrebbero davvero bisogno le persone (e fanno del male agli altri)
persone che risolvono davvero un problema ma che non sentono significativo ciò che fanno per vivere (e fanno male a se stesse)
La prima sottocategoria, persone che fanno del male agli altri è una storia sempre più diffusa. Basta vedere tutte le sponsorizzate per propinare pseudo investimenti per dimagrire/trovare l’amore/fare soldi/ avere successo in modo facile.
Rispondono - non risolvono - un problema, un “job”: persone che vogliono cambiare vita ma si trovano così in difficoltà da non avere la forza di fare grandi cambiamenti e cercano una bacchetta magica a buon mercato.
La seconda sottocategoria, persone che fanno del male a se stesse, è quella forse più diffusa. Personalmente, perché in questo caso non mi sembra carino fare esempi, molte volte vengo pagato per cose che pur portando valore ai miei clienti non mi rendono per niente felice o sentire utile in questo mondo.
Persone che vogliono risolvere un problema
Le persone che vogliono risolvere un problema sono invece persone speciali. Non più talentuose di altri, di noi. Solo più coraggiose.
Loro si guardano dentro e dicono: cosa mi fa schifo della mia vita? Proviamo a risolverlo.
Si scopre poi che ci sono altre dieci, cento, mille, milioni di persone alle quali fa schifo quella determinata cosa.
A Martin Luther King faceva schifo una società in cui i neri venivano discriminati. Si scoprì che la cosa faceva schifo a milioni di persone, bianchi compresi. (Sinek, anche se non mi sta così simpatico, docet)
Ma ci sono una marea di esempi, anche più concreti.
Il Dollar Shave Club è stato fondato da Mark Levine e Michael Dubin. La coppia si è incontrata a una festa e ha parlato delle loro frustrazioni per il costo delle lamette. Con i propri soldi e gli investimenti dell'incubatore di start-up Science Inc. , hanno iniziato a operare nel gennaio 2011 e hanno lanciato il loro sito Web nell'aprile 2011.
Black-Socks è nato così.
Nel 1994, quando l'economista neolaureato Samy Liechti fu invitato dal suo allora capo a partecipare a un incontro dell'ultimo minuto con i clienti giapponesi, non avrebbe immaginato che questo giorno avrebbe cambiato la sua vita. Dopo l'incontro, i giapponesi lo hanno invitato a una cerimonia del tè.
La tradizione impone di togliersi le scarpe per tali occasioni. Fu allora che accadde: un errore così palese da non poter passare inosservato. I calzini di Samy erano strani. Uno era nero scuro e liscio mentre l'altro era rigato e sbiadito, con un buco nell'alluce.
La situazione imbarazzante ha portato Samy Liechti a pensare a come gestire il suo problema personale del calzino ed evitare simili situazioni in futuro. Ed è così che è nata l'idea.
Venti e più anni dopo, Black Socks vende in 100 paesi.
Airbnb è nato così.
Nell’ottobre del 2007, a San Francisco, sta per svolgersi l’Industrial Designers Society of America, un’importante conferenza di design. Questa conferenza richiama un mare di persone ma non tutte sanno dove alloggiare. Così, Brian Chesky e Joe Gebbia, due neolaureati in design, coinquilini e che non sanno come pagarsi l’affitto, senza pensarci su poi tanto, comprano tre materassi ad aria (airbed), li sistemano nel proprio salotto, e offrono alloggio a basso prezzo.
Molti pensando a Airbnb pensano che risolva il problema “trovare alloggio a prezzi bassi”, ma risolve anche e soprattutto “arrotondare e guadagnare da case e stanze inutilizzate”.
La Death Race & Spartan è nata così.
Nel 2000, la squadra di Joe De Sena si è arenata nelle terre selvagge del Quebec durante una gara d'avventura invernale di 350 miglia, quando ha dovuto scavare sotto la neve per sopravvivere. È stato qui che, come racconta, ha iniziato a ragionare sulla differenza tra situazioni "difficili" ed esperienze "disperate" e lo ha ispirato a creare le sue gare di resistenza".
Lavori in corso, alla ricerca della metà perfetta (DEL PROBLEMA)
In Beople, parlando di Modelli di Business e della complessità del momento, ricordiamo che oggi tutte le imprese, anche quelle storiche e di successo, sono da considerarsi startup. Che, secondo la brillante definizione di Steve Blank, sono imprese alla ricerca di un Modello di Business permanente.
Come freelance, dobbiamo considerarci (e non solo adesso) allo stesso modo.
Siamo, come scrivevo qualche settimana fa, “lavori in corso”. Alla ricerca, in questo caso, di ciò che ci dà significato.
Credo che la strada debba necessariamente partire dal PROBLEMA. Dal nostro problema.
Per certi versi è la storia del mito delle “metà” di Platone.
“Un tempo gli uomini erano esseri perfetti, non mancavano di nulla e non v’era la distinzione tra uomini e donne. Ma Zeus, invidioso di tale perfezione, li spaccò in due: da allora ognuno di noi è in perenne ricerca della propria metà, trovando la quale torna all’antica perfezione…”
Allo stesso modo, per tutti, ma ancora di più per quegli esseri speciali che sono i freelance, la sfida sta in questo: trovare la metà (DEL PROBLEMA) che ci rende significativi o che comunque, al di là delle difficoltà, dà senso alle nostre giornate.
“Vuoi vendere per il resto della tua vita acqua zuccherata o vuoi cambiare il mondo?” disse, secondo la “leggenda”, Steve Jobs a John Sculley, ex presidente di Pepsi Cola, per convincerlo a diventare CEO di Apple nel 1983.
La domanda oggi che ci poniamo è qualcosa in parte di simile: vuoi vendere acqua zuccherata o cambiare il mondo?
C’è una Great Resignation anche per i freelance. In parte, è una buona notizia. Qualcosa di elettrizzante.
Buon viaggio.
EXTRA: l’immagine che fa da copertina alla newsletter di oggi è ispirata da una frase come sempre pungente di Nassim Taleb.
Credo sia un ulteriore spunto di riflessione in periodi di “cambiamento”. Sacrificare ciò che conta e lavorare per ciò che non conta sono spesso strettamente correlati.
About me
Penso, scrivo e lavoro dalla Sicilia. In un piccolo paesino tra montagna e mare insieme alla mia compagna, i miei tre figli e cinque cani.
In passato sono stato un ghostwriter, un oste, un addestratore cani, un consulente strategico per persone straordinarie e diverse aziende globali.
Piango ancora se penso che Baggio non gioca più. Mi irritano quelli che sanno tutto, i caroselli e i sondaggi su LinkedIn, le ricette facili per il successo e le definizioni stereotipate del successo. Per come la vedo io, su questa terra, siamo tutti qui a cercare ancora di capirci qualcosa.
La missione oggi è aiutare persone come me a creare, vivere e raccontare modelli di business rilevanti per il mercato ma che non debbano in cambio sacrificare i nostri valori e la nostra vita.
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